Gentili Lettori, Molise Tabloid porta avanti la rubrica ‘L’avvocato risponde’, dedicata all’approfondimento degli aspetti legali di particolari questioni e argomenti che, vi ricordiamo, potete segnalarci anche voi attraverso una mail all’indirizzio molisetabloid@gmail.com. A rispondere alle domande ci penserà lo studio legale Verde di Campobasso (in foto gli avvocati Mariaelena e Alessio Verde), che dopo aver trattato temi come cyberbullismo, guida in stato di ebbrezza, maltrattamenti in famiglia, omicidio stradale, diritto all’oblio, colpa medica, accesso abusivo a sistema informatico e stalking condominiale, si soffermerà su un tema ricorrente nella nostra epoca digitale: la diffamazione a mezzo facebook.
“L’oramai risalente avvento dei social network ha portato ad un cambio delle abitudini di vita ed in primis del modo di comunicare. Ciò ha fatto sì che determinate tipologie di reati abbiano trovato nuovi sbocchi interpretativi e siano tutt’ora al centro del dibattito giuridico, sia dottrinale, sia nei suoi risvolti pratici e quotidiani, discussi nelle aule dei Tribunali.
L’esempio principe di tale premessa è il reato di diffamazione ex art. 595 c.p. il quale così prevede:
chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente (il reato di ingiuria oramai abrogato), comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
In questo articolo parleremo di come si possa incappare nella forma aggravata di tale reato anche semplicemente facendo uso di un social network, prendendo come punto di riferimento il social network più famoso e maggiormente predisposto ad accogliere le condotte attuative di tale reato, data la struttura comunicativa della piattaforma: Facebook.
Ad oggi, la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca ‘facebook’ integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, cod. pen.
Difatti, tale modalità di comunicazione di un contenuto informativo suscettibile di arrecare discredito alla reputazione altrui, ha “potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, perché attraverso questa ‘piattaforma virtuale’ gruppi di soggetti valorizzano il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un numero indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione” (Cass. Sez. 5, n. 8328 del 13/07/2015).
Bisogna dunque fare molta attenzione nei propri comportamenti “virtuali”, si pensi infatti che anche chi semplicemente aggiunga un commento al post diffamatorio contraddistinto del medesimo tenore, può essere perseguito poiché il suo contributo può essere indice di una maggior diminuzione della reputazione nella considerazione dei consociati: “in tema di diffamazione, la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia già stata compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione della nella considerazione dei consociati” (Cass. 7/12/2004 n. 47452). Recentemente è stato proprio il Tribunale di Campobasso – Sezione penale ad affermare tale principio con sentenza 2 ottobre 2017 n. 396, la quale a sostegno cita numerose sentenze della Suprema Corte ricordando come: “la condotta di postare un commento sulla bacheca facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica” (cfr. Cass. 1.03.2016 n. 8328; Cass. 2/01/2017 n. 50) ma anche che: “la libertà di pensiero, garantita dall’art. 21 Cost., ha i suoi limiti naturali che sono costituiti dal rispetto altrui e dalla tutela dell’ordine pubblico e del buon costume. Per quanto riguarda il rispetto del diritto altrui la facoltà di manifestazione del pensiero trova un preciso limite nel diritto di ogni cittadino all’integrità dell’onore, del decoro, della reputazione. La libertà di pensiero trova un limite nella legge penale, essendo la diffamazione un atto illecito e non una manifestazione della libertà di pensiero” (Sentenza n. 811 del 16.10.1972). Difatti, “in tema di diffamazione la reputazione non risiede in uno stato o in un sentimento individuale, indipendente dal mondo esteriore, nè tantomeno nel semplice amor proprio: la reputazione è il senso della dignità personale nell’opinione degli altri, un sentimento limitato all’idea di ciò che, per la comune opinione, è socialmente esigibile in un dato momento storico” (Cass. 24.03.1995 n. 3247).
I seguenti commenti diffamatori in particolare sarebbero da considerarsi “in tema di diffamazione, la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia già stata compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione della nella considerazione dei consociati” (Cass. 7/12/2004 n. 47452).
Una rilevante novità degli ultimi mesi si è verificata anche in relazione alla produzione della cosiddetta prova tramite “screenshot”. Difatti, se prima la prova di messaggi diffamatori estrapolati da un supporto informatico poteva essere ritenuta difficile da produrre in giudizio poiché avente validità solo se certificata, recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8736 del 2018, ha sancito la ammissibilità e la piena validità di un cd. “screenshot” acquisito da un supporto informatico o da uno smartphone. Gli Ermellini, precisamente, hanno affermato che: “i dati di carattere informatico contenuti in un computer rientrano tra le prove documentali e per l’estrazione di questi dati non occorre alcuna particolare garanzia; di conseguenza ogni documento acquisito liberamente ha valore di prova, anche se privo di certificazione, sarà poi il giudice a valutarne liberamente l’attendibilità”.
La Suprema Corte ha ritenuto perciò lo screenshot un documento informatico completamente valido come prova documentale, riconducibile alla categoria di cui all’art. 234 c.p.p.; consequenzialmente per acquisire quanto contenuto in esso non sarà più necessaria la procedura dell’accertamento tecnico irripetibile, fermo restando successivamente al giudice il compito di vagliare l’attendibilità della prova documentale prodotta nella fase istruttoria del procedimento.
Altro errore comune è pensare che la successiva rimozione del post oggetto del reato di diffamazione possa escludere la responsabilità penale, il reato di diffamazione è formale ed istantaneo, difatti, si consuma immediatamente, nell’atto della percezione denigratoria dovuta alla comunicazione a più persone lesiva dell’altrui reputazione.
Spesso, infatti, si pensa ai social network come un limbo speciale che esula dalla realtà quotidiana e non si dà peso all’utilizzo che ne viene fatto. Così facendo, alcune persone possono attuare comportamenti da “leoni da tastiera” comunicando con pensieri, immagini o frasi che mai esternerebbero in pubblico. Il rispetto della Legge e prima ancora dell’educazione e dell’etica, però, va attuato in ogni momento della propria vita, anche quando non si ha la percezione di essere sotto lo sguardo diretto ed il controllo di altre persone.“