Un meccanismo che regola la contrazione delle cellule muscolari presenti nei vasi arteriosi potrebbe rappresentare il punto di partenza per lo sviluppo di terapie contro la pressione arteriosa elevata, uno dei più seri problemi medici del mondo occidentale. Sono i risultati di una ricerca condotta dal gruppo coordinato da Giuseppe Lembo, professore ordinario dell’Università Sapienza di Roma presso il Dipartimento di Angiocardioneurologia e Medicina Traslazionale dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli, in collaborazione con il Dipartimento di Neurochirurgia dello stesso istituto e l’Università di Padova. Lo studio, pubblicato sulla rivista Arteriosclerosis, thrombosis and vascular biology (ATVB) dell’American Heart Association (AHA), che gli ha anche dedicato un editoriale, ha concentrato la sua attenzione sulle cellule muscolari lisce dei vasi arteriosi, che si contraggono o si rilassano in modo da regolare costantemente il flusso di sangue che arriva nei tessuti e di conseguenza la pressione arteriosa. Proprio questo ruolo di “regolatrici del flusso” porta le cellule muscolari a reagire quando c’è ipertensione arteriosa: per contrastare l’aumento di pressione si contraggono, proteggendo i tessuti da un flusso eccessivo. Ma così facendo aumentano la resistenza al passaggio del sangue, contribuendo nel tempo a peggiorare la situazione. Punto cruciale di questi processi è una proteina, la Emilina-1, una componente delle fibre elastiche presenti tra le cellule endoteliali (che formano la vera e propria parete interna dei vasi). Attraverso esperimenti condotti sia su modelli animali che su tessuti umani, i ricercatori Neuromed hanno potuto vedere che una riduzione di Emilina-1 porta ad una maggiore contrazione delle cellule muscolari lisce. “Pensiamo – dice Daniela Carnevale, professoressa dell’Università Sapienza e prima autrice dello studio – che lo stress provocato dall’ipertensione sui vasi sanguigni possa portare a una diminuzione di Emilina-1, e di conseguenza a una maggiore contrazione della muscolatura liscia. Questo causerebbe un irrigidimento delle arterie, contribuendo ulteriormente allo stato ipertensivo. Ed è un meccanismo che rimane attivo nel tempo. Consideriamo, infatti, che alcuni studi clinici avevano già mostrato come l’elevata contrazione dei vasi si mantenga anche quando i pazienti stanno seguendo una terapia antipertensiva. Le arterie, insomma, sono ancora irrigidite nonostante le terapie, e ciò spiegherebbe perché le persone ipertese continuano ad avere un maggiore rischio di patologie cardiovascolari anche quando sono in trattamento”. “Non dobbiamo dimenticare – commenta il professor Lembo – che l’ipertensione è una delle principali cause di mortalità e morbilità in tutto il mondo. Abbiamo molte strategie terapeutiche a disposizione, eppure gli attuali trattamenti non sempre ottengono gli effetti desiderati. Ci sono meccanismi ancora da identificare, che potranno diventare bersagli di terapie innovative. In questo contesto la strada dell’Emilina-1 appare molto promettente”.
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