Scritte antifasciste sui muri del cinema Astra di Trento e dito puntato contro il proprietario della sala accusato di aver permesso la proiezione di Red Land – Rosso Istria, il film, trasmesso anche dalla Rai, che ripercorre la vita di ‘Norma Cossetto’ la ragazza stuprata da 20 uomini di Tito e poi buttata viva nelle foibe. Minacce e intimidazioni che sembrano appartenere ad un’epoca in bianco e nero, e invece risalgono a meno di una settimana fa. Fatte in un Paese democratico e civile.
Quanto accaduto in quelle terre di confine, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, è un tema ancora troppo controverso. Una verità che fa male e che si fa fatica ad accettare, “forse perché o forse anche perché – dicono gli scampati – la storia la scrivono sempre i vincitori e mai i vinti” che restano in silenzio e sotto un cono d’ombra che toglie il diritto a far emergere brutture che pesano come macigni sulle nostre coscienze. Ma i macigni non sono invisibili, non possono passare inosservati. Per un dovere morale quanto civile.
Sono trascorsi appena 15 anni dall’ufficializzazione del Giorno del Ricordo. È stato un processo lungo e complicato dedicare una data ad un altro eccidio consumato in Europa e finito al centro di polemiche tra quanti volevano far emergere la cruda realtà e quanti invece si affannavano a nascondere il bestiale ingranaggio che aveva ucciso migliaia e migliaia di persone durante quegli anni bui. Una pagina di storia dimenticata, ma da non dimenticare perché non possono finire nell’oblio le inenarrabili barbarie subite dagli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia. Torture coperte dall’indifferenza. Quella stessa indifferenza che Anton Cechov chiamava ‘la paralisi dell’anima’ una ‘morte prematura’. Definizione che non posso non condividere perché, come la Shoah, anche le foibe sono state coperte da un’inspiegabile reticenza che non ci ha permesso nemmeno di omaggiare le vittime dell’eccidio, di ricordare le torture, il dramma di tante comunità in fuga. Ricordare, dunque, per non banalizzare il male, per inculcare alle nuove generazioni il pericolo che si cela dietro l’oblio. Ricordare per fermare la devastante deriva dell’odio in riposta ad altro odio, per non alimentare quei focolai di intolleranza e di razzismo che stanno pericolosamente riprendendo piede in tutto il vecchio e illuminato continente. Focolai da arginare con la solidarietà e l’altruismo, con la cultura dell’accoglienza – valori alla base della nostra Costituzione – e con quel senso civico che deve impedirci di volgere lo sguardo altrove. Il silenzio non è mai stato amico dell’oggettività. Ed è proprio dal silenzio e dall’omertà che bisogna stare lontani. Va rispettato invece il dolore che spezza il fiato e che ha impedito agli scampati di raccontare. Una forma di difesa la loro, probabilmente anche un mezzo per sopravvivere all’orrore dal quale sono miracolosamente riusciti a fuggire. Un silenzio che però, seppur più eloquente di mille parole, non ha aiutato a rimettere insieme i tasselli di una terribile vicenda i cui contorni sono ancora oggi poco delineati, come fossero offuscati dal dubbio che le foibe siano realmente esistite o dalla paura, concreta, che possano ripetersi, sotto altre forme, in altri luoghi, imposte da nuove dittature. Un dramma che ha macchiato un Paese già sporco di sangue per via della guerra. Un’aberrazione che facevano passare col nome di ‘liberazione’. Un paradosso giocato sulla pelle di troppi innocenti. Un’accezione del termine che aveva l’acre odore della vendetta e che niente aveva a che fare con la libertà, con il poter essere se stessi, con la dignità umana. Liberazione, invece, come sinonimo di carneficina per chiunque si opponeva al regime di Tito. Italiani, in fuga da terre italiane. Italiani che i connazionali non hanno protetto, non hanno accolto così come avrebbero potuto. Profughi considerati fascisti solo perché contrari alle follie del dittatore slavo che, senza freno, mieteva vittime con una ferocia inaudita. Tante famiglie terrorizzate hanno lasciato le loro case per trovare un rifugio, alcune sono arrivate pure a Campobasso dove hanno vissuto l’esilio con assoluta dignità ma con il cuore in pena per chi era passato dalla luce di quelle terre rosse all’oscurità delle foibe. Qualcuno di quei fuggiaschi è sepolto anche nel nostro cimitero. Ma in quei paesi di confine, lì dove il tempo sembra essersi fermato, sono rimaste in piedi alcune case che furono abbandonate in fretta dagli italiani. Case che conservano l’amaro profumo di vite ‘interrotte’ e quel senso di distacco che non è facile da accettare. Case diventate ‘monumenti’ di una pagina nera, scritta a più mani, in cui ognuno di noi ha delle responsabilità. Il Giorno del Ricordo deve dunque servire a farci riflettere sui troppi errori commessi, sulla solitudine in cui abbiamo lasciato i nostri connazionali. Un giorno per elogiare il coraggio di chi è fuggito ma anche di chi ha provato a restare. Un giorno per piangere sull’indifferenza che ha mortificato migliaia di innocenti. Un giorno per chiedere scusa ai sopravvissuti e onorare la memoria di chi non c’è più. Una data per ripartire dal rispetto verso gli altri, verso chi è in difficoltà. Verso il prossimo.