Acquisire i segnali cerebrali in modo da elaborarli al computer per controllare protesi robotiche. È una delle frontiere più avanzate negli studi volti ad aiutare i pazienti paralizzati in seguito ad eventi acuti come l’ictus o a causa di patologie degenerative. Una ricerca condotta dall’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli in collaborazione con l’Università Tor Vergata di Roma e altri centri di ricerca italiani, dimostra ora la possibilità di usare nanotubi di carbonio al posto degli elettrodi tradizionali, basati su metalli, per effettuare registrazioni di segnali cerebrali a lungo termine. La precisa registrazione dei segnali elettrici del cervello si ottiene applicando, attraverso un intervento di neurochirurgia, particolari elettrodi sulla corteccia cerebrale. I segnali così rilevati possono essere elaborati e interpretati da dispositivi informatici che li potranno poi trasformare in istruzioni dirette a protesi robotiche o utilizzare per modulare l’attività cerebrale. In questo modo, diventa possibile comandare con il pensiero un braccio meccanico, oppure un “esoscheletro” robotico. Significa ridare autonomia e qualità della vita a pazienti parzialmente o interamente paralizzati. “Gli elettrodi tradizionalmente usati nelle ricerche in questo campo – dice l’ingegner Luigi Pavone, dell’Unità di Bioingegneria del Neuromed, primo firmatario del lavoro scientifico assieme alla professoressa Slavianka Moyanova – sono costituiti da dischi metallici, depositati su film di materiale plastico o polimerico, che vengono impiantati, tramite intervento chirurgico, sulla corteccia cerebrale. Noi puntiamo a utilizzare, invece, i nanotubi di carbonio, un materiale più flessibile e quindi maggiormente capace di seguire tutte le curvature e le irregolarità della superficie del cervello e che consente di realizzare dispositivi di dimensioni molto piccole”. Proprio per studiare le capacità tecniche di questo nuovo materiale, e soprattutto l’assenza di effetti negativi per l’organismo, la ricerca, pubblicata sulla rivista Journal of Neural Engineering, ha utilizzato modelli animali sui quali sono stati impiantati gli elettrodi a nanotubi di carbonio in cronico. “Abbiamo potuto dimostrare – continua Pavone – che i nostri elettrodi sono biocompatibili. Nonostante il lungo periodo in cui sono stati mantenuti in sede, infatti, non sono stati registrati effetti negativi per la salute degli animali, come ad esempio fenomeni infiammatori. Inoltre i segnali registrati con i nostri elettrodi presentano un’efficienza maggiore a lungo termine rispetto agli elettrodi fatti con materiali tradizionali come il platino. Infine abbiamo dimostrato come essi siano molto più flessibili rispetto agli elettrodi tradizionali. Questo significa far aderire meglio i dispositivi alle cellule nervose, aumentando la precisione delle rilevazioni e, quindi, inviando al computer dati migliori sui quali basare le elaborazioni”. “Questo è un campo emergente – commenta Moyanova – che potrebbe aprire nuove frontiere per aiutare alcune categorie di pazienti. Questi dispositivi neurali, basati su materiali conduttivi innovativi, potrebbero essere utilizzati per sviluppare interfacce uomo-macchina per aiutare le persone paralizzate a condurre una vita più indipendente, essendo in grado di controllare dispositivi esterni utilizzando i segnali elettrici del cervello. Ad esempio, un paziente paralizzato potrebbe essere in grado, con l’aiuto di tale impianto nel suo dispositivo cerebrale, di bere un bicchiere d’acqua o di camminare attraverso l’uso di esoscheletri. Potremmo anche pensare di utilizzare questi elettrodi nei pazienti epilettici per inviare stimoli elettrici nell’area epilettogena per interrompere le crisi epilettiche. Queste sono le principali applicazioni possibili in cui l’affidabilità, la sicurezza e la precisione dei sensori sono cruciali”. “La ricerca sulle nuove tecnologie volte ad aiutare i pazienti – dice l’ingegner Fabio Sebastiano, Consigliere delegato alla ricerca del Neuromed – è una sfida che non è stata fermata dall’emergenza che stiamo vivendo. Il virus ha forse messo in ombra tutte le altre patologie, ma di sicuro non le ha fatte sparire. Proprio per questo dobbiamo continuare a esplorare strade nuove, uno sforzo per il quale è cruciale una rete di collaborazioni internazionali. Dobbiamo poi fare una riflessione: nella ricerca multidisciplinare, discipline diverse collaborano per trovare insieme soluzioni, ma ognuna contribuisce per le proprie competenze, che quindi rimangono separate. Al contrario, il progetto del nostro Istituto dimostra che nella ricerca ‘interdisciplinare’ le conoscenze in campi diversi permettono di creare nuovi modelli, strumenti, approcci che non sarebbero potuti emergere altrimenti. È così che si sviluppano sistemi innovativi per trovare nuove risposte”.
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