L’incredibile scoperta a Pompei di un antico termopolio romano avviene nel decennale della dieta mediterranea quale patrimonio immateriale dell’umanità che l’UNESCO ha conferito nel 2010. Una coincidenza che fa riflettere, soprattutto ora, al tempo della globalizzazione alimentare che rischia di far scomparire l’unicità del modello alimentare più antico e famoso al mondo. Legumi, pollame, pesce, cereali e vino, il cui odore ha letteralmente investito gli archeologi. Nella città simbolo della cultura romana si trovano tracce di un modello alimentare che ancora oggi è al centro di numerose indagini scientifiche che ne ribadiscono gli effetti benefici per la salute. Il cuore pulsante della dieta mediterranea è arrivato fino a noi, in una sorta di staffetta che nei secoli ha mantenuto intatto il senso autentico della dieta “scoperta” negli anni ’50 dal fisiologo americano Ancel Keys che l’ha resa celebre agli occhi del mondo. Il modello mediterraneo è un’arma vincente contro le principali malattie croniche e anche per ridurre la mortalità. Ma è chiaro che il nostro cibo è oggi profondamente diverso da quello consumato nel termopolio di Pompei. La dieta mediterranea di oggi deve fare i conti con la grande globalizzazione e l’industrializzazione che, a partire dagli anni ’60, ha interessato anche il sistema alimentare e che rischia di sgretolare una cultura millenaria. “La recente scoperta archeologica – commenta Licia Iacoviello, direttore del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli e professore di Igiene e Salute Pubblica all’Università dell’Insubria di Varese – ci ricorda che la dieta mediterranea non è una lista della spesa, ma un modo di vivere, una serie di fattori che vanno molto al di là dei fornelli. Il termopolio infatti era un luogo aperto al pubblico dove ci si incontrava, si beveva, si ammiravano i dipinti dei banconi in pietra, si scambiavano graffiti beffardi e si mangiava del cibo caldo: zuppa di farro o di lenticchie, un piatto misto a base di pesce, un calice di vino “corretto” con miele o fave. Era un’alimentazione popolare, diversa da quella più raffinata e succulenta che i patrizi romani potevano concedersi nelle loro case. Certamente la cena di Trimalcione, descritta da Petronio pochi anni prima dell’eruzione del Vesuvio, non era un modello di dieta mediterranea!”. “La qualità della dieta era a Pompei ed è ancora oggi molto diversa tra i vari gruppi sociali – afferma Marialaura Bonaccio, ricercatrice di Neuromed e autrice di numerose ricerche sulla dieta mediterranea. – Basti pensare alla straordinaria varietà di olio d’oliva, allora disponibile sul mercato e che di fatto rifletteva la gerarchia sociale dell’epoca, dall’olio verde di Venafro, standard di qualità, all’olio lampante utilizzato per le lampade o all’olio spremuto da olive bacate, detto “cibarium”, per l’alimentazione degli schiavi. Di recente – prosegue Bonaccio – lo studio Moli-sani ha rivelato che i benefici della dieta mediterranea sono condizionati dalla posizione socioeconomica. A parità di adesione alla dieta mediterranea, l’alimentazione delle persone con alto reddito e un livello di istruzione maggiore, risulta più ricca di antiossidanti e polifenoli, di cibo biologico, oltre a presentare una maggiore diversità in termini di frutta e verdura consumate”. Come ha giustamente riconosciuto l’UNESCO, la tradizione mediterranea pone il cibo al centro di un contesto di stagionalità, biodiversità e convivialità. Caratteristiche che oggi sono in forte pericolo, anche perché le persone hanno sempre meno tempo da passare in cucina e attorno alla tavola. Ma non è tutto. Quello che conta oggi è anche analizzare la qualità della dieta, ossia la provenienza dei cibi che ci dice anche come sono stati coltivati, trasformati e trasportati sulle nostre tavole. “Pane, vino, olio e cereali erano i cardini alimentari di una società civilizzata che si riconosceva attorno al proprio lavoro e alla capacità di operare sulla realtà naturale, trasformandola – commenta Giovanni de Gaetano, presidente di Neuromed. – Con gli scambi alimentari che si sono susseguiti nei secoli, a partire dalla scoperta dell’America, la dieta mediterranea si è arricchita di cibi ora imprescindibili. Basti pensare al pomodoro, ai peperoni e alle patate, e perfino al mais, base per alcuni piatti della cucina povera del meridione italiano. Un arricchimento che agli occhi di un pompeiano scampato dai lapilli della grande eruzione potrebbe sembrare un sacrilegio. Eppure la storia della dieta mediterranea insegna che la contaminazione alimentare può essere una sintesi virtuosa, senza confondere l’arricchimento con l’alterazione del modello mediterraneo. Dobbiamo essere capaci di raccogliere un’eredità e adattarla ai tempi, ma senza dimenticare le nostre origini”.
Alimentazione, Neuromed: dieta mediterranea nell’antica ‘tavola calda’ di Pompei. Lavorare per mantenere la tradizione
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