C’è una pagina importante, in gran parte sconosciuta della nostra storia, che riguarda la schiavitù nei lager nazisti dopo l’8 settembre 1943 di ben 716.000 militari italiani, 33.000 deportati politici (militari e civili) e 9.000 zingari ed ebrei d’Italia e dell’Egeo. La deportazione gettò nell’angoscia sette milioni di familiari e amici, come dovette ammettere anche Mussolini. Gli italiani furono travolti dall’Armistizio segreto dell’8 settembre con gli Alleati, dopo una guerra di aggressione impreparata, non sentita, male armata e guidata e il crollo del fascismo – 25 luglio 1943- , seguito dai quarantacinque giorni di Badoglio non concretizzò l’instaurazione della democrazia. L’Esercito italiano, con 2.000.000 di combattenti e territoriali presenti, si dissolse senza alcun piano. Sopraffatte alcune nostre eroiche resistenze a Roma, nelle isole greche (Cefalonia, Corfù, Lero…) e nei Balcani, la Wehrmacht (forze armate tedesche) disarmò con l’inganno 1.007.000 nostri militari, ne catturò 810.000 e ne transitò, in 284 lager d’Europa, i 716.000 (l’88%, con 27.000 ufficiali) che si rifiutarono di collaborare per coscienza, onore, lealtà, dignità, stanchezza della guerra e convinzione. I militari italiani, catturati con l’inganno e senza quasi resistenza, vennero subito defraudati dai tedeschi del loro status naturale di prigionieri di guerra (KGF) e delle conseguenti tutele, e vennero marcati come internati militari – qualifica arbitraria non prevista dalle convenzioni internazionali – e considerati falsamente come disertori badogliani e potenziali soldati del duce in attesa di ravvedimento e impiego. Dal 1943 al 1945, gli schiavi di Hitler di 28 Paesi, deportati in oltre 30.000 lager, dipendenze e comandi di lavoro (AK), furono in tutto 24 milioni, con 16 milioni di morti. Una storia triste che non conosce ancora verità assolute e non di certo fa onore a chi ha lottato per la Patria, la democrazia, la voglia di libertà. Lo Stato per molti anni ha trascurato la storia, salvo tardivi attestati di patrioti, combattenti per la libertà, ai sempre meno numerosi viventi. Poco è stato archiviato e la verità assoluta è solo nelle corde dei vincitori, dei perdenti, degli storici che la divulgano e ricordano a seconda delle proprie virtù di “Giusti”, veri o falsi che siano. Non a caso, soltanto da vent’anni i nostri istituti di storia contemporanea, universitari o del Movimento di Liberazione sono tornati su questo filone di ricerche sperando di salvare e tramandare alle future generazioni le testimonianze sempre più scarse e vacillanti dei reduci superstiti, ridotti a un quinto, e in rapido esaurimento, come accaduto per il macchiagodenese Rinaldo Midea.
I giovani devono sapere perché, come e a quale prezzo i nonni, volontari nei lager, si siano battuti per dare anche a loro la libertà e perché alla famiglia privilegiarono la Patria, famiglia delle famiglie, ma sfrondata dalla retorica fascista. Devono sapere che l’8 settembre di certo non segnò la morte della Patria. Così, per fortuna, è stato per nonno Rinaldo grazie a familiari indefessi in cerca di motivazioni, di domande. Ricordare o dimenticare? Certo dimenticare è più comodo ma non chiudere la porta al revisionismo di parte che impedisce la ricostruzione storica obiettiva, sarebbe stata la fine di un modello che porta a guardare il futuro come già scritto nel passato. 250 conflitti in 115 paesi, migliaia di campi minati, migliaia di campi di concentramento, ben oltre 27 milioni di morti, 20 tra feriti e prigionieri, 50 tra profughi, rifugiati e sfollati, 27 di schiavi, un miliardo di affamati e sottoalimentati, sempre più poveri e ammalati, con altri milioni di morti e sempre milioni di bambini che pagano le colpe dei grandi, non possono essere presi e messi in cassaforte. Ricordare per urlare al mondo che non sono le guerre i baluardi della democrazia ma il contrario e che gli esempi non siano presi a modelli se non razionali e determinanti per la scelta di vita e di democratica libertà. L’esempio dei nostri nonni sia volano per la pace e connettore di senso civico. Nonno Rinaldo sia il nonno di tutti noi e quella meritata croce di guerra ricevuta sul petto già nel 1978, non sia un cimelio personale o strettamente legato all’orgoglio familiare ma sia volano di unità e di concretezza nell’amare guardando alla speranza di poter godere dell’infinito mondo delle “umane genti”. Lo spirito collettivo abbia il sopravvento e tutti insieme si possegga la gioia di partecipare all’onorificenza che la famiglia Midea avrà l’onore di ricevere dalle mani di S.E. il Prefetto della provincia di Isernia, Montella. Esserci nella consapevole condivisione non è di certo un obbligo ma renderebbe memoria infinitamente eccelsa a chi ebbe il dono della ritrovata libertà per sé, per la sua famiglia, per ognuno di noi. Lunedì 27 gennaio, a partire dalle ore 10,30 circa presso il Centro Sociale a Macchiagodena, vi sarà la cerimonia di consegna dell’onorificenza, non per cancellare il tumultuoso esilio lacerante di nonno Rinaldo, ma per ricordare a noi stessi che la vita è certamente migliore dell’oblio e il ricordo non potrà mai aver sconfitta dalla morte. La cerimonia sarà preceduta da un evento riguardante l’inaugurazione di una panchina per la ricorrenza del giorno della memoria.
“Giovani e lavoro: quale futuro?”: convegno il 28 gennaio all’IPIA Montini
Attivare un confronto fra scuola e realtà produttiva della regione Molise. Questo l’obiettivo del convegno Giovani e lavoro: quale futuro?...
Leggi tutto