Trenta ore su una barella, in un angolo del Pronto Soccorso del Cardarelli, in preda ai sintomi del Covid-19 e in attesa di essere ricoverata in Malattie Infettive. Un’attesa inutile. Il trasferimento nel reparto non avverrà mai. Non ci sono più posti, dicono. Muore così una 85enne di Campobasso, una dei tanti anziani strappati ai loro cari da questo virus subdolo e maledetto ma che a differenza di altri non ha avuto neanche l’opportunità di ricevere un trattamento adeguato per provare a combattere una battaglia già difficilissima. La drammatica testimonianza è quella della figlia della vittima che ha messo in luce un episodio grave in un momento delicato per ospedale e personale sanitario, già provati da anni di tagli e da una pandemia che ha finito per aggravare la situazione. Quando la sera di lunedì scorso i familiari, segnati dalla perdita della 85enne, avvenuta intorno alle 15, hanno visto il bollettino dell’Asrem che riportava il decesso della donna in Malattie Infettive hanno scosso la testa, increduli e amareggiati. “Non è vero che è deceduta in Malattie Infettive – ha affermato la figlia, interpellata dalla Tgr, nella sua testimonianza. – Non l’hanno mai trasferita. E’ rimasta 30 ore su una barella. L’hanno lasciata morire lì“. L’amarezza è tanta. Il Covid-19 può essere fatale, lo sapeva, soprattutto per una persona fragile come la madre. Inconcepibile però lasciare una donna di quella età e con un quadro clinico grave in quelle condizioni. I sintomi sospetti dell’anziana si registrano la domenica precedente. La donna si aggrava, la febbre è alta, i familiari preoccupati allertano il 118. L’85enne viene trasportata al Pronto Soccorso dell’ospedale dove, da prassi, le viene effettuato un tampone faringeo e viene sottoposta ad una radiografia. Le immagini mostrano già quello che si temeva. La donna ha una polmonite bilaterale. In attesa dell’accertamento di aver contratto il Covid-19, deve restare temporaneamente nel Pronto Soccorso. Non può andare in un reparto no Covid perché c’è il rischio che sia contagiata e, viceversa, non può essere condotta in reparto Covid senza prima avere la certezza della natura dell’infezione. La donna, pur supportata e seguita dal personale sanitario, non può fare altro che convivere con il suo malessere che si aggrava ora dopo ora. I familiari tornano a casa, pregano e sperano. L’ansia sale. E’ quasi impossibile dormire. La mattina successiva arriva la telefonata dall’ospedale. “E’ positiva. In mattinata sarà trasferita nel reparto di Malattie Infettive“. La consapevolezza prende il sopravvento, la certezza del tampone e dello step successivo dà paradossalmente un po’ di respiro alle emozioni – quelle sì – negative. La consapevolezza è anche quella di non poterla vedere, chissà per quanto, se non forse attraverso uno smartphone. Inutile pensare al futuro in momenti in cui il susseguirsi degli eventi è completamente ignoto. Alle 14 però arriva un’altra telefonata. Il trasferimento non può essere effettuato. Non ci sono posti. La figlia cade dalle nuvole. Un’ora dopo la madre non c’è più. Il suo cuore si ferma sulla stessa barella dove era stata adagiata in via provvisoria e che è diventata il suo letto di morte. La rabbia della figlia non è verso i medici che, sottolinea, hanno fatto un lavoro impeccabile. “Non si possono però lasciare le persone in Pronto Soccorso. Non si può lasciare una donna di quell’età e con un quadro clinico non certo dei migliori su una barella per trenta ore. Chi ha bisogno di ricovero deve essere trasferito nei reparti“. Uno sfogo, triste, doloroso, alla ricerca di risposte e che si trasforma in appello per il futuro, nella speranza che altri come lei non vivano la medesima odissea. Un monito a chi di dovere affinché, anche se ci troviamo di fronte ad un’emergenza sanitaria difficile da gestire, i pazienti non vengano mai abbandonati al loro destino.
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