Fino al secolo scorso non si parlava di obesità, diabete, cancro, malattie cardiovascolari e metaboliche. I nostri antenati non vivevano abbastanza per arrivare a sperimentare quelle condizioni patologiche che caratterizzano l’era moderna, le cosiddette “malattie del benessere”. Le principali cause di morte erano costituite da fame e malattie infettive, dovute alla povertà, alle scarse condizioni igieniche e alla mancanza di cure efficaci. La ricerca, la medicina, le tecnologie e lo sviluppo economico, poi, hanno fatto passi da gigante, garantendoci una maggiore protezione dagli agenti infettivi e una maggiore durata della vita. A discapito di cosa però? Dello sviluppo delle malattie croniche non trasmissibili, per le quali è più facile, se non conveniente, imparare a conviverci che debellarle. Cosa è successo? Il nostro DNA è sempre lo stesso ma i nostri geni si sono evoluti in base agli stimoli ambientali, che sono decisamente cambiati. Primo fra tutti il nostro modo di mangiare: la disponibilità di cibo è aumentata enormemente, in quantità molto più elevate rispetto a quelle di cui abbiamo realmente bisogno, ma la qualità è molto inferiore rispetto al passato, sia a causa dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici, che influenzano la produzione delle materie prime, sia per via dell’industrializzazione e dello sviluppo di cibi processati, conservati e sempre più raffinati. Inoltre, siamo bombardati a livello mediatico da colori e promesse di ogni tipo, a cui è difficile resistere, soprattutto se a “cascarci” sono i bambini (ma non è detto…). In secondo luogo è cambiato il nostro stile di vita, sempre più sedentario: il fatto di avere tutto a portata di mano, di avere a disposizione mezzi che ci permettono di raggiungere qualsiasi luogo con facilità o addirittura senza muoverci affatto (ormai anche la spesa si fa su internet) è deleterio non solo perché la mancanza di attività fisica fa ingrassare ma anche perché indebolisce le nostre ossa (infatti siamo tutti a rischio di osteoporosi perché siamo a corto di vitamina D, che viene prodotta dal fegato con l’esposizione al sole) e modifica la composizione della nostra flora batterica intestinale, il microbiota, che, come detto più volte, influenza direttamente il nostro sistema immunitario e il nostro umore.
A tutto ciò si aggiungono lo stress e l’abuso di antibiotici, che creano un vero e proprio circolo vizioso sulla nostra salute perché compromettono ulteriormente le nostre difese immunitarie. E così, ciò che ci permette di vivere più a lungo allo stesso tempo ci distrugge. La vita frenetica di oggi ci ha fatto perdere il piacere di cucinare, di passare del tempo ai fornelli, quel tempo che sembra sempre troppo poco e che ci ha reso sempre meno pazienti con noi stessi e con gli altri ma sempre più “pazienti” dal punto di vista clinico. Non sappiamo più prenderci cura di noi stessi in maniera genuina. Preferiamo soluzioni rapide e indolori (nel breve termine, ma dannosissime nel lungo termine), cioè imbottirci di farmaci e consumare cibi precotti o preparati nella maniera più rapida possibile ma che ci diano grandi quantità di energia in pochi grammi. Tuttavia, l’eccesso di alcuni nutrienti, come carboidrati e zuccheri, grassi saturi ma anche proteine, determina la carenza di altri, le cosiddette micro-carenze, chiamate così non perché siano di poco conto ma perché riguardano i micronutrienti (vitamine e minerali), che sono importanti tanto quanto (se non di più) i macronutrienti. Ad essere cambiato è anche il rapporto dell’uomo col cibo. Nel corso dei millenni, da semplice fonte di sussistenza, esso ha assunto un valore culturale e sociale, che identifica e contraddistingue in qualche modo l’individuo come appartenente a un gruppo, sia esso ristretto, come la famiglia, o più ampio, come una comunità. La tavola, nella nostra tradizione mediterranea, è un momento di condivisione e di piacere al quale non potremmo mai rinunciare, la meritata ricompensa a conclusione di una giornata intensa di lavoro nei campi, consumata però in maniera temperata, con la consapevolezza che il giorno successivo bisognava avere sì le energie ma anche la lucidità e la leggerezza necessarie per un nuovo ciclo di fatica. Nella società odierna, dove il lavoro dell’uomo è stato sostituito dalle macchine e lo smart working (che per certi versi tutto è tranne che smart perché ci brucia il cervello e ci consuma il corpo) va per la maggiore, siamo alle prese con una continua corsa contro il tempo perché siamo talmente oppressi dalle scadenze che a volte ci dimentichiamo (volutamente) di cucinare e spizzichiamo al volo qualcosa di sicuramente poco salutare o addirittura saltiamo il pasto. Di conseguenza il rapporto con il cibo è diventato sempre più controverso perché da un lato è più intimo e dall’altro è più superficiale, tanto che ci ha reso incapaci di riconoscere ciò che ingeriamo, ciò che facciamo entrare dentro di noi: riversiamo le nostre ansie e le nostre preoccupazioni sul cibo e quindi sul nostro corpo, somatizziamo le nostre paure e ci facciamo del male.
Non siamo più abituati a condividere, così quando ci riuniamo in famiglia o in altri gruppi durante le festività e le occasioni speciali, lo scambio di opinioni, di emozioni, di sensazioni, di esperienze passa in secondo piano e l’unico obiettivo è quello di trovare e far trovare sulla tavola (per poi ingerire) quanto più cibo possibile, tentando di colmare un vuoto che non ha nulla a che vedere con il nostro stomaco. Ma tutto ciò ha finito per andare in controtendenza rispetto ai nostri avi, la cui Dieta Mediterranea esaltava e celebrava un valore che ha perso il suo significato originario: la convivialità. Il termine, che viene dal latino cum vivere, non vuol dire semplicemente convivere ma piuttosto condividere, essere commensali. La tavola in qualche modo è sempre stata il riflesso della società e quando non c’è convivialità vuol dire che “non si realizza la condivisione dei beni, non c’è il riconoscimento della destinazione universale dei beni, i frutti della terra non vengono consumati insieme, nell’equità e nella giustizia” ma chi arriva prima tende ad accaparrarsi le parti migliori e a chi arriva dopo restano le briciole. Secondo il filosofo austriaco Ivan Illich è “conviviale una società nella quale lo strumento è al servizio della persona integrata alla collettività, e non al servizio di un corpo di specialisti. È conviviale la società nella quale l’uomo controlla lo strumento”. La società conviviale, secondo Illich, è retta dai valori fondamentali della sopravvivenza garantita per tutti, della giustizia distributiva, della partecipazione generalizzata, del lavoro autonomo e creativo e del libero accesso agli strumenti e ai beni della comunità. Con la crisi economica, si è andato via via riscoprendo un altro valore importante della tradizione mediterranea: la frugalità. Tuttavia l’origine latina del termine non aveva un’accezione di risparmio o decrescita (economica) ma piuttosto il significato di moderazione volontaria dei consumi. Frugalitas ha come radice frugi, che vuol dire utile, a sua volta derivante da frux (frutto, risultato), e indicava l’utilità dello schiavo che era in grado di portare a frutto gli incarichi assegnati dal padrone. Con Cicerone poi ha assunto il significato di moderazione e temperanza materiale in contrapposizione alla luxuria. L’ideale stoico, e aristocratico, della frugalitas è stato in larga parte inglobato sia dal pensiero cristiano sia dalla riscoperta del mondo antico che prende il via dalla fine del Medioevo e arriva all’età moderna. Con San Tommaso, la semplicità materiale appare come uno degli strumenti fondamentali per liberare l’uomo dalle preoccupazioni mondane.
Possiamo paragonare, dunque, un pasto frugale alla tenuta rurale descritta da Varrone nel 37 a.C., preferibile perché è più semplice, più sobria e quindi più orientata alla produzione rispetto a una villa più lussuosa, destinata al puro godimento materiale. In un’accezione più moderna la frugalità può essere intesa come industriosità e capacità di gestire in modo intelligente le risorse economiche, in un quadro ideologico in cui il desiderio di guadagno è considerato una virtù, mentre la semplicità materiale è valutata negativamente, in quanto contraria allo sviluppo del benessere di una nazione. Il Natale è alle porte, ci sentiamo tutti più buoni e ci facciamo promesse per l’avvenire ma quest’anno sarà tutto diverso: uno shopping meno sfrenato, uno scambio di doni ristretto, niente pranzi megagalattici né cenoni. Il periodo più atteso dell’anno sarà vissuto con uno spirito diverso, con un misto di malinconia, preoccupazione, rabbia, rassegnazione, ma soprattutto nella massima intimità. Ebbene, approfittiamo di questa situazione così “strana” per riscoprire quei valori che per troppo tempo abbiamo dimenticato e sottovalutato: la convivialità e la frugalità. Meno piatti e più confronti, meno lamentele sul presente e più pensieri positivi per il futuro. Non aspettare dopo l’Epifania per “mettersi a dieta” ma capire che ora è il momento giusto per riprendere in mano la propria vita e iniziare a gestirla sulla base di quei valori che costituiscono gli ingredienti della ricetta per la felicità, senza aspettarla dagli altri e senza vivere in balìa degli eventi. Prendersi cura di sé, leggere e informarsi nel modo giusto, affidandosi a un professionista, sono i primi passi per imparare a vivere in modo sano. Spesso sottovalutiamo l’importanza della prevenzione perché pensiamo di stare bene finché non abbiamo sintomi e quando poi questi arrivano dobbiamo ricorrere ai farmaci. Bisognerebbe, invece, dedicarsi del tempo. Ed è proprio questo il mio augurio per tutti: ritrovare il tempo per se stessi, per passeggiare all’aria aperta, per cucinare cibi frugali, per condividere il pasto scambiandosi emozioni e sensazioni e sedersi a tavola senza pensare a cosa c’è ma a CHI c’è. Buon Natale!
Dott.ssa Cinzia Baranello
Biologa Nutrizionista
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Bella e ottima argomentazione.